La trappola della mediocrità | #12
Come ho rovinato trent'anni di vita pensando costantemente di essere inadeguato
🪫 Questa settimana non ho avuto abbastanza energie per scrivere e mi sono ridotto all’ultimo.
Motivo per cui il post é breve e conciso. Non troverai nemmeno il riassunto audio, che tornerà a partire dalla prossima newsletter.
Te lo dico solo per creare commitment con me stesso.
Sei un’inconsapevole cavia dei miei tentativi di essere costante. 🐁
Io c’ho una mania. Mi ricordo tutti i libri che ho iniziato e non ho finito:
2015. Terzo anno di università. Lolita di Nabokov. Lo vedo ancora poggiato su un comodino di finta quercia tra bottiglie di birra vuote, calzini spaiati e un paio di tazzine di caffè incrostate.
2014. Sull’onda dell’entusiasmo di un viaggio a Lisbona dove ho conosciuto Sérgio, uno studente brasiliano di filosofia, incomincio Guerra e pace di Tolstoj; mai portato a termine.
Estate 2012. Per la discussione della tesina del liceo, acquisto un libro di Antonello Caporale: Mediocri, i potenti dell’Italia Immobile.
Titolo della tesina:
La Mediocrità
Lo compro, sottolineo un paio di righe dell’introduzione che riporto fedelmente nel mio discorso e lo chiudo per sempre, dimenticandolo nella libreria dei miei genitori.
Come è evidente, l’ossessione per la mediocrità mi accompagna fin da ragazzo, ma per lungo tempo mi sono illuso che non riguardasse anche me. Che appartenesse esclusivamente agli altri.
Anni dopo quell’estate del 2012, che considero ancora oggi come la più spensierata della mia vita, ho realizzato quanto fossi profondamente ossessionato dalla mia mediocrità e come certe scelte siano state dettate dall’adempiere ad una sorta di cammino dell’eroe con il preciso scopo di staccarmi dalla media.
Oggi, che quel cammino mi ha estenuato, che non sono più in grado di portare nessun peso, sto costruendo un modello non orientato alla performance e sto finalmente iniziando a vivere.
Ciò che ha innescato questo cambio di prospettiva è stato riprendere in mano quel libro per la tesina e terminarlo; chiudendo così un capitolo opprimente della mia vita.
C’era qualcosa che quel diciottenne voleva dirmi già allora, ma io l’ho ignorato per dodici anni 🥲
Oggi voglio dedicare qualche minuto a riflettere sui rischi dell’essere ossessionati dalla mediocrità; un concetto che in quest’epoca di scoperte improvvise, di nuovi e vecchi conflitti e di ridefinizione continua degli standard, non ha più alcun valore. Ma che intrappola ancora la maggior parte di noi.
Voglio riportare qui i tre principali atteggiamenti che ho riscontrato su di me, perché solo di me posso parlare con onestà, e di cui oggi mi pento.
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Una vita a somma zero
Gran parte della mia vita è stata un calcolo per sopraffare qualcun altro.
Crescere con la consapevolezza di temere la mediocrità più di ogni altra cosa, ci porta a calcolare strategicamente ogni istante. La scelta di ciò che leggiamo, chi frequentare e chi no, cosa studiare all’università, il lavoro che scegliamo di fare; tutto è in funzione di non rimanere bloccati all’interno della nostra personale idea di mediocre.
Durante la mia adolescenza ad esempio, la mediocrità era l’antitesi del successo lavorativo. È per successo lavorativo intendevo implicitamente quello che avevo ereditato dalla generazione dei miei genitori: una carriera aziendale.
Oggi che sono un Millennial sfinito mi è più chiaro. Questa folle corsa al lavoro è stata funzionale ad un concetto ereditato di successo. Un concetto obsoleto già all’epoca per la verità, visto che mio padre non ha terminato il liceo e mia madre non è stata mandata all’università perché donna.
Pensare durante il primo decennio degli anni Duemila, che bastasse andare all’università per ottenere una vita ricca e prospera, era già ampiamente da creduloni.
La conseguenza di tutto ciò é che non ho mai coltivato qualcosa per il solo gusto di farlo o di farlo bene. Mi sono illuso di aver tracciato io la direzione, ma in realtà ho sempre preso decisioni strumentali, screditando le scelte di coloro che non sembravano aver raggiunto (o essere interessati ad) un certo tipo di successo.
Il mio psicologo ancora oggi mi dice: sei in grado di sospendere il giudizio?
Rincorrere questo ideale ci porta inevitabilmente a competere tutti nello stesso sport e tratteggiare fin da subito un rapporto conflittuale con l’altro: speriamo continuamente sbagli strada o che sia troppo sfinito per tallonarci nella corsa all’oro.
Io sono sfinito! E oggi cerco solo rapporti a somma positiva.
Non mi interessa più il gioco delle sedie, in cui corriamo tutti attorno al tavolo, desiderando ardentemente di non essere gli ultimi a rimanere in piedi.
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Essere un ingrato
La cosa peggiore di essere ossessionati dalla mediocrità é sentirsi costantemente circondato da mediocri e proiettare le proprie paure e insicurezze su chi ci sta accanto.
Quando vivi con le aspettative della generazione del boom economico e scrolli tutto il giorno i successi artefatti degli altri sui social, ti viene proprio da pensare che qualcosa con te è andato storto.
Io spesso ho tratteggiato la mediocrità come il diventare come i miei genitori: diventare un dipendente pubblico pagato il minimo salariale, sempre stanco e frustrato e con una pila di sogni infranti sul comodino.
Spesso ho dato loro la colpa del sentirmi incastrato in una vita dozzinale.
Nonostante loro abbiano dato tutto per farmi studiare e per garantirmi il miglior percorso che fossero in grado di offrirmi, io ho passato anni della mia vita a pensare segretamente che non fosse abbastanza.
Per quanto sia doloroso ammetterlo, è stato un pensiero ricorrente di cui mi vergogno, ma immagino che non sia solo la mia storia.
Quanti fuffaguru e ciarlatani sentiamo blaterare online sulla possibilità di attirare il successo semplicemente staccandoci da chi ci tiene ancorati al suolo?
Questa retorica é semplice e potente, perché sposta il problema sugli altri invece che farci concentrare sulla nostra personale definizione di successo.
Ed è un manipolazione che attuiamo costantemente anche senza il guru di turno che cerca di raggirarci. È più facile spostare il problema che prendere coscienza di come stiamo vivendo davvero la nostra vita.
Muoversi così nella vita è pericoloso perché ci de-umanizza; ci fa pensare ai rapporti con gli altri solo in funzione di quanto possano contribuire al nostro successo.
Quante occasioni ho sprecato, quante mani tese non ho visto, concentrato com’ero sulla rendicontazione del dare e avere.
Schiavi di sé stessi
Durante la ricerca del successo, il cocchiere che è dentro di noi ci costringe ad una corsa senza fine. L’obiettivo non esiste, è solo una fuga dallo spauracchio di essere uguali a tutte le altre scimmie con un piano simile al nostro.
Diventiamo servi di noi stessi, auto-sfruttandoci ogni minuto della nostra vita nella speranza di raggiungere un risultato straordinario e non ci concediamo un attimo di tregua. Il padrone che alberga in noi, non è disposto ad accettare alcuna titubanza e scendere da questa giostra non è affatto semplice.
Io ho passato anni a spostarmi da un obiettivo all’altro, seguendo una rotta illusoria dettata dalla fatica e dal sacrificio.
Ci auto-ipnotizziamo e continuiamo a reiterare un comportamento a bassa intensità intellettiva perché non sappiamo chi siamo, né cosa vogliamo, né perché passiamo la vita a fare quello che facciamo. Ci basta essere sempre in tensione verso qualcosa per compiacerci di essere speciali.
Il mio piano mi sta portando lontano da loro, da quella pozza fangosa di maiali senza ambizione che rotolano nel fango.
Fa schifo, ma scommetto che non è troppo diverso da ciò che ti racconti per andare avanti.
Dobbiamo avere il coraggio di fermarci ciclicamente.
Mettere in pausa tutto e riflettere intensamente su chi crediamo di essere e su quali siano le nostre priorità.
Solo dopo aver messo qualche punto fermo nella nostra esistenza possiamo definire nuovi obiettivi e cercare di raggiungerli. Altrimenti, restiamo solo schiavi di compiti che non abbiamo mai davvero scelto.
Conclusione
Questo è stato un piccolo sfogo su un argomento importante che è venuto a galla solo in queste settimane in cui ho ripreso un profondo contatto con me stesso. L’ossessione per la propria mediocrità ci trascina verso un’esistenza anestetizzata.
Il mio non è un attacco al successo, che ognuno deve essere libero di perseguire come meglio crede. È un invito a ripensare il concetto di mediocrità, che spesso è il vero motore delle nostre azioni.
Nel casino delle nostre vite, dovremmo cercare di pensare ogni tanto all’origine del termine mediocrità, che in latino è mediocritas e non ha il valore dispregiativo, ma significa piuttosto "stare in una posizione intermedia" ed esalta il rifiuto di ogni tipo di eccesso, invitando a rispettare il "giusto mezzo".[1]
Accettare la propria mediocrità, qualunque cosa voglia dire per te, é il primo passo per liberarci dagli sforzi erculei che chiediamo a noi stessi.
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A mio parere il passaggio chiave è alla fine, quando spieghi il significato del termine mediocrità. Credo che il problema stia proprio nell’accezione dispregiativa che viene data al termine, in questa società (o momento storico), in cui per forza bisogna eccellere, spiccare sugli altri (magari anche a discapito degli altri). E così troppo spesso ci dimentichiamo quale sia il nostro valore. Forse più che riabilitare la mediocrità, bisognerebbe fare pace col concetto che si tratta semplicemente di normalità, e che non c’è nulla di sbagliato nell’essere normali.
Non mi sono mai misurata col concetto di mediocrità, tendo a non confrontare la mia vita con quella degli altri e tanto meno a darle un “prezzo”, nel senso di valere più o meno di qualcun altro, però avevo in mente il raggiungimento di traguardi di “normalità” che mi avrebbero teoricamente fatto sentire a posto con me stessa e con la società, dove sarei andata a occupare la casella indicata per tenere su tutto il baraccone, svolgendo il compitino. A un certo punto mi sono accorta, molto più tardi di te, che non era quello che volevo o che che comunque non ero io che avevo scelto, mi ero fatta “guidare” dagli altri e in un certo momento forse mi ha anche fatto comodo. Questo per dirti che, mutatis mutandis, al di là della mediocrità, mi sa che quel punto di fermo e introspezione, che chiamerei brutalmente “consapevolezza”, quando lo pestiamo, è la cosa migliore che ci possa capitare o la peggiore, dipende da come decideremo di muoverci.